South working: io lo faccio da anni (a mia insaputa), ecco com’è

South working; cos'è e definizione
Il south working potrebbe essere una rivoluzione sanguinosa e silenziosa. Io lo faccio da anni, quando ancora non si chiamava così. Ti spiego meglio.

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Da qualche settimana si sente parlare del termine south working. Una definizione che, a quanto posso capire, coniuga lo smart working con il lavorare dalle regioni del sud, invece che da quelle del nord.

In molti casi, il discorso viene affrontato come se si trattasse di una cosa totalmente nuova, e in parte in effetti lo è. Ma è anche vero che situazioni del genere esistono da anni, magari non sono così comuni ma ci sono. Solo che prima non avevano un nome preciso.

A quanto pare, io faccio parte esattamente di questa categoria, quello del lavoro da remoto e dal sud. Faccio parte di questa specie di rivoluzione senza saperlo. E allora cerco di capire cosa significa, e a cosa potrà portare.

A un certo punto si sono accorti del south working

L’interesse attorno al south working è partito da una semplice constatazione: chi è tornato al proprio paesello al sud durante la pandemia per qualche motivo ha scelto di non tornare al nord. Non ci torna per lavorare e non ci torna per studiare. E questo fatto sta un pochino scombussolando l’economia di prossimità delle città settentrionali.

La paura del “mancato rientro”, come la definisce questo articolo di Linkiesta, è vera ed è tangibile. Così come dovrebbe essere vera anche la parabola contraria (e mai troppo raccontata) – ovvero che le attività di prossimità del sud potrebbero ricevere un bel rimbalzo.

La cosa carina, però, è che ci si è accorti del fatto che si può lavorare bene anche dal sud solo in questo periodo. E per farlo si è addirittura ricorsi a un nuovo termine, come se fosse un concetto talmente complicato e astratto impossibile da spiegare a parole. Una categoria del pensiero non prevista.

South working: cos’è e una possibile definizione (glocale)

Il south working, quindi, è lo smart working applicato al sud. Si lavora dalla propria casa per un’azienda posta magari a chilometri di distanza. Esattamente quello che faccio io come copywriter freelance. La mia esperienza lavorativa è tutta south working, a quanto pare, visto che ho sempre lavorato da remoto per aziende del nord rimanendo però a cinque minuti di cammino dal lungomare di Catanzaro Lido.

E tutto sommato non avrei potuto fare altro, visto che al mio primo colloquio di lavoro mi fu proposto di andare a fare uno stage gratuito a Novara. All’epoca mi sembrava una cosa senza tanto senso, e alla fine l’ho spuntata io, visto che lavoro da remoto da anni e con risultati che mi consentono di non morire di fame (se sei proprio interessato, puoi leggere la mia storia per capirci qualcosa in più).

La cosa bella del lavorare in questo modo – che non vedo sottolineata a sufficienza (o non vedo sottolineata proprio) – è che si diventa professionisti glocali, come spiego in questo articolo. Si sviluppano abilità che riguardano il comunicare e l’interfacciarsi con grandi aziende, senza però dimenticare la propria dimensione locale.

Puoi parlare in dialetto stretto e mandare mail in inglese a una project manager che lavora dall’altra parte del mondo. Senza preoccuparti di metterti le scarpe.

smart working da catanzaro lido
il mio ufficio/casa è da qualche parte dietro quei palazzi

Lavorare al sud prima era una scelta, ora una necessità. O viceversa

Dice: col south working lavori al sud, ma fai comunque guadagnare il nord. E in qualche modo è giusto, perché la maggior parte delle mie commesse è per clienti del nord Italia. Ma è anche vero che quando esco la spesa la vado a fare al negozietto sotto casa a Catanzaro Lido, non al Bennet di Cantù (che non so se c’è ancora in effetti, ci andavo da piccolo quando vivevo a Como).

La cosa interessante è che ora che ci si è accorti del south working a livello nazionale, forse in molti vorranno farne parte. E non è un fatto da prendere alla leggera.

Se mi guardo in giro, vedo che molti dei miei compagni di liceo o di università sono dovuti partire – per necessità o scelta, tutte e due opzioni valide. Adesso però il discorso è un po’ cambiato perché, causa pandemia, magari sei al nord ma non hai lavorato per due, tre mesi, ed ecco che tornare a casetta al sud è sicuramente un’opzione da prendere in considerazione. Senza contare che – allo stato attuale delle cose – la gente ha anche un po’ di paura.

Conosco ragazze che tra poco dovranno tornare sulle cattedre di scuola a insegnare, e lo dovranno fare in paesi dell’hinterland milanese. La prospettiva di lasciare le spiagge per tornare tra la nebbia quest’anno non ha solo risvolti sentimental/sciovinisti, ma anche legati alla presenza ancora attiva del coronavirus.

Non studio, non lavoro, non guardo la TV (dal nord)

Che poi, south working significa lavorare principalmente da casa. Non lo possono fare tutti e non a tutti piace. Si tratta pur sempre di un’attività professionale, che come ho avuto modo di spiegare ha i suoi difetti e i suoi pregi. E va bene che se ti affacci vedi il sole il mare e i mandolini, ma poi devi sempre metterti davanti al PC e smanettare tutto il giorno. Non è detto che a tutti piaccia, non è detto che tutti ci riescano, non è detto che tutti siano portati. Al sud come al nord.

A proposito, ti segnalo i miei due articoli sui lati positivi del lavoro da remoto e le cose negative del working from home.

Una rivoluzione silenziosa (e che farà vittime)

I processi che cambiano davvero la vita delle persone spesso succedono senza fare tanto clamore. Senza telecamere e microfoni a fare da contorno. E ho l’impressione che con il ritorno al sud di ragazzi e lavoratori sarà così.

Tanto per dire: qualche tempo fa un mio vicino di casa è morto di una brutta malattia. Il figlio, nato e cresciuto al nord, a inizio anno aveva intenzione di vendere l’abitazione. Qualche giorno fa lo incontro e, tra una cosa e l’altra, scopro che si è definitivamente trasferito qui, a Catanzaro, proprio nella casa del padre, per lavorare in smart working. D’altra parte, aveva a disposizione una casa di proprietà gratis al sud invece che un affitto al nord. E poteva lavorare da casa. Mi sembra la scelta più logica, soprattutto in tempi di pandemia. A pensarci, una cosa del genere non sarebbe mai avvenuta l’anno scorso. Ma è successa, l’importante è questo.

E se è vero che il south working è una specie di rivoluzione, mi pare fin troppo facile tornare alle parole di Mao:

“La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra.”

Senza arrivare alla violenza, è pur vero che se il trend continuerà andranno ripensate tante cose: i trasporti, le scuole, l’offerta formativa delle università, tutta la situazione delle attività di supporto a chi lavorava al nord (bar e ristoranti in primis). E poi i compensi, i contratti, i rapporti col datore di lavoro. Qualcuno rimarrà indietro, qualcuno ne beneficerà, qualcuno cadrà col sedere per terra e qualcuno si salverà come sempre. Andrà più o meno così:

“Forse oggi, esteticamente, mi rimetto gli slip pervinca, mi rivesto, esco, e vedremo come va a finire. C’è una fine per tutto, e non è detto che sia sempre la morte.”

Giorgio Gaber
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